La coraggiosa avventura di una bimba chiamata Bettina
Fine ‘800, agosto: sul fondo di un ripido canalone situato sul versante meridionale del monte Pania Secca alcuni giovani arrancano a piedi nudi sui massi bruciati dal sole d’agosto. Pochi metri ancora e, alla base di una bassa parete calcarea in parte coperta dall’edera, si fermano davanti a una capanna murata a secco addossata alla roccia. Qui, nonostante la luce abbagliante, l’aria si fa più fresca e le pietre, gelide sotto la pianta dei piedi, alleviano il peso dell’afa. Pochi istanti ancora e il massiccio battente di castagno consunto dal tempo, spinto con forza dai ragazzi, ruota cigolando sui cardini di ferro e libera verso di loro una violenta ventata gelida che pare nascere dal nulla.
La cosa non li stupisce, loro conoscono bene quel vento provvidenziale, quell’aria fresca e purissima che da secoli consente agli abitanti della vicina borgata di Trimpello di conservare a lungo le carni ed il latte, di mantenere fresche le verdure, la frutta e le bevande, di stagionare i formaggi e i salumi nella maniera migliore anche quando altrove la torrida stagione estiva non lo consente.
Ma anche se non vi è stupore vi è comunque curiosità, una forte curiosità che è andata crescendo assieme alla loro statura: da dove viene quel vento che i loro genitori e i loro nonni considerano semplicemente “un dono della Provvidenza”?
Il loro sguardo è fisso sulle fessure fruscianti che si aprono tra l’acciottolato della capanna e la roccia della parete… “e se provassimo a spostare qualche pietra? cosa diranno i nostri genitori se lo verranno a sapere?”.
Un’ora più tardi sono tutti al lavoro: coperti da ruvide maglie olezzanti di pecora e coi piedi protetti da pesanti calzature con la suola di legno chiodato spostano le pietre passandosele l’un l’altro e deponendole all’esterno della capanna. Man mano che la fessura si allarga il vento aumenta e le mani si intorpidiscono per il freddo, ma la voglia di continuare aumenta perchè, spostato un grosso masso, vedono sotto di sè un vuoto oscuro nel quale vorrebbero calarsi ma non possono: il passaggio è ancora troppo stretto. Qualche sforzo ancora e, rimosso l’ultimo ostacolo, dopo aver dato un’occhiata alle tenebre sottostanti, si trovano a guardarsi smarriti tra loro, cercando negli occhi dei compagni il coraggio di calarsi nel buco soffiante. “…proviamo a buttare un sasso…”, “…però, non sembra poi tanto fondo…, “…e se provassimo a calare una pertica?”.
La pertica viene calata: neppure quattro metri. Subito dopo qualcuno scende trepidante lungo il palo di legno. Toccato il fondo, dopo la fatica, l’emozione della scoperta, il timore dell’ignoto e l’eccitante sensazione di profanare qualcosa di proibito, un’amara delusione: i deboli raggi di luce provenienti dall’esterno lasciano scorgere il foro dal quale proviene sibilando il vento, uno stretto pertugio tra le pietre del fondo e quella che sembra la volta di una galleria. Sarà sì e no una spanna, e tentar di allargare il foro sarebbe troppo difficoltoso perché non c’è spazio per spostare i sassi; non resta che rinunciare.
“E se provassi io?”. La vocina proviene dall’alto. Alla presenza della Bettina, una vivace bimbetta di quattro anni, nessuno ci aveva fatto caso, ma lei era lì sin dall’inizio ed aveva vissuto momento per momento tutta l’avventura, prima assistendo alle operazioni di scavo, poi attraverso le concitate parole di quelli che si erano calati. Finalmente si presentava la sua grande occasione: fino a quel momento aveva provato un misto di invidia e di ammirazione per quelli che, essendo più grandi di lei, volevano entrare “nella casa delle fate”.
Ora è lei che ha la chiave per entrare in quella casa e per svelarne i misteri. Nel suo piccolo mondo fatto di mamma e papà, fratelli, amici e vicini di casa, lei è l’unica persona abbastanza esile da entrare in quel pertugio soffiante dove nessun altro essere umano ha mai messo piede, e questo la fa sentire “grande”: una sensazione eccitante che la riscatta dall’umiliazione di essere sempre stata “la più piccola”.
Qualche dubbio, da parte dei “grandi”, sull’opportunità di mandare la Bettina dove nessuno potrà soccorrerla in caso di necessità viene fugato dall’ardente smania di sapere cosa c’è “dall’altra parte” e la bimba si prepara a partire.
I primi tentativi falliscono subito per l’impossibilità di accendere una candela, e soprattutto di mantenerla accesa con tutto quel vento. Qualcuno, guardandosi bene dal chiedere il permesso ai propri genitori, corre a casa a prendere una lanterna di vetro, di quelle quadrate coi fori di aerazione, nella quale viene sistemata la candela, e finalmente la Bettina si introduce nello stretto pertugio. La violenza del vento le agita i riccioli castani e minaccia più volte di spegnere la lanterna. Mentre striscia, ventre a terra, lungo la breve strettoia, una goccia gelida e dispettosa le entra dal collo tra la pelle e i vestiti aumentando l’intensità dei brividi, che forse non sono solo di freddo.
Ma la bimba non perde il coraggio e, tre metri più avanti, riesce a mettersi carponi, poi in ginocchio: l’ambiente, alquanto più ampio, è meno ventoso e più accogliente, anche se alcune ossa sul pavimento destano una certa apprensione, non meno di un viscido mostriciattolo simile a una lucertola marrone che fissa l’intrusa coi suoi enormi occhi sporgenti. Sul soffitto tondeggiante alcune gocce scintillano come brillanti e, più avanti, oltre una strettoia simile a quella appena percorsa, altre gocce, precipitando nell’acqua, svegliano strani echi che ne prolungano il suono. “Saranno le fate?”. E la Bettina si sdraia di nuovo per scoprire la fonte di quei suoni melodiosi, inoltrandosi nella seconda strettoia, ma ben presto l’incanto si trasforma in terrore: il vento, qui di nuovo impetuoso, penetra nei fori d’aerazione della lanterna e spegne la candela.
Sono attimi interminabili di angoscia, ma ben presto le voci dei ragazzi, allarmati dalle urla della bimba, la guidano nell’oscurità sulla via del ritorno. Dopo pochi minuti la sua avventura termina tra le braccia degli amici che per qualche istante avevano temuto il peggio.
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Cent’anni più tardi, agosto, stesso luogo: siamo in un giorno di festa del 1998 e della capanna-frigorifero non v’è più traccia, se non nei racconti degli anziani. L’ingresso è stato completamente sgomberato dai detriti, così come le strettoie successive, e migliaia di turisti provenienti da ogni parte del mondo si avvicendano nella visita della “Grotta del Vento” ora attrezzata con comodi sentieri e ottimamente illuminata dalla luce di oltre cento riflettori.
Quando la Bettina visse la sua grande avventura durata pochi metri e pochi minuti, la strada carrozzabile più vicina distava più di tre ore di cammino. Oggi a poche decine di metri dall’ingresso della grotta si estende un grande piazzale di parcheggio (peraltro insufficiente) che trabocca di bus e autoveicoli privati mentre gli altoparlanti annunciano ogni dieci o quindici minuti l’entrata di un nuovo gruppo.
Domina il piazzale un moderno edificio che ospita la biglietteria, uno snack-bar, un grande negozio di minerali e fossili, un centro di informazioni turistiche ed un ufficio direzionale che si tiene in continuo collegamento con innumerevoli agenzie, tour operator ed organizzazioni turistiche di ogni genere.
Dall’altra parte del piazzale un vecchio fabbricato rurale, trasformato in ristorante, è in grado di servire alcune centinaia di pasti al giorno. ed a breve distanza un chiosco che vende i prodotti tipici della gastronomia locale.